NEL 1939 Mussolini, in un discorso alle grandi manovre, aveva gridato «... quest’anno il congedo non verrà!».
La classe di leva era il 1917 e da allora incominciò a cambiare qualcosa.
I veci smisero di cantare l’allegra canzone dei congedanti ma anche un’altra che era nata alla fine dell’Ottocento, composta, secondo la tradizione del 6° Alpini, dal tenente Magliano. Diceva: «Sul cappello portiamo il trofeo / dei reali di Casa Savoia / Lo portiamo con fede e con gioia...».
Poi, nel giugno 1940 andammo sulle Alpi Occidentali cantando: «Con il fucile novantuno / che quando spara non fa fumo / e con il settantacinquetredici la Francia tremerà...».
Il fucile modello 1891 era quello dei nostri padri nella Prima guerra mondiale; il 75/13 l’obice Skoda di preda bellica, già in uso nell’Esercito austro-ungarico.
Nella disgraziata campagna contro la Grecia nacque la più triste canzone di guerra: «Sul ponte di Perati bandiera nera / l’è il lutto degli alpini che van a la guerra ...».
Francia, Africa, Grecia, Balcani, Russia... Vennero anche il 25 luglio e l’8 settembre 1943...
Quelle discussioni nelle lunghe ore della fame. Fu lì, nelle baracche del Lager 1/B, nella Masuria, che vedemmo definitivamente chiaro: basta con i re, basta con il duce!
Non eravamo acculturati politicamente, non avevamo avuto maestri, elementari le nostre scuole ma, oramai, eravamo carichi di esperienze, anche se giovani.
Dicevamo, nelle ore del freddo e della fame: «Quando ritorneremo in Italia bisogna cambiare: repubblica!».
E con che forza quel 2 giugno di 55 anni fa calcammo la matita copiativa sulla scheda che indicava repubblica contro re e duci e su quell’altra per l’Assemblea Costituente che aveva il compito di elaborare e votare la nuova Costituzione.
Era la prima volta che noi, generazioni cresciute sotto il fascismo, e le donne avevamo il diritto di voto.
Era l’Italia che ci aveva chiamato a farlo. Quella povera Italia che - per fortuna! - aveva perduto la guerra e sulle montagne, con la Resistenza, ritrovata la libertà.
Era un’Italia rotta, affamata, lacera nella quale tutti i partiti collaborarono in solidarietà nazionale che permise una ricostruzione straordinaria.
Questo pensavo poco fa guardando alla televisione la rivista prima e la sfilata poi per la Festa della Repubblica.
E lì, a rappresentare l’Italia, c’era sul palco delle autorità un presidente senza pennacchi e medaglie, sereno nel suo vestito della festa; sorridente salutava, e davanti a lui non c’erano aquile romane o croci uncinate ma tante bandiere d’Europa e la gente applaudiva e le donne buttavano fiori, i bambini seduti per terra si divertivano e non sfilavano in divisa.
Passavano davanti ai nostri occhi tanti anni di storia e di sofferenze, vedevamo il trascorrere dei decenni, di epoche ormai, e alla fine ci veniva di fare delle considerazioni: erano in questa festa del 2 giugno più i servizi civili e per la pace che non quelli per la guerra. Che bello!
Mario Rigoni Stern
da La Stampa On Line
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